Gli orfanelli: a volte ritornano. La sconcertante scoperta di una telespettatrice masochista



Dopo aver a lungo, e a ragione, rimandato, ho preso coraggio e ho guardato i primi 2 episodi di Grey's Anatomy, stagione 6. Wow, che botta! Sembrava di asisstere alla dimostrazione della legge di Murphy: se qualcosa può andare storto, lo farà.


Così finalmente ho capito: Meredith Grey è la fottuta Ape Magà. E io sono la stessa bambina masochista di 30 anni fa.


Grey's è l'equivalente per adulti degli anime strappalacrime sugli orfanelli che guardavamo da bambini.

Stessa visione della vita all'insegna della Sfiga, stesso accanimento sadico sui personaggi, stesso dissidio interiore di noi spettatori, tormentati dal grande interrogativo "perché mi infliggo questa punizione una volta a settimana?" ma allo stesso tempo incapaci di smettere.

Già, ripensando a Remi, Peline e alla terribile, terribile Ape Magà mi sono chiesta spesso: perché li guardavo se mi facevano stare male? Per grey's Anatomy vale la stessa domanda... e gli stessi tentativi di risposta: per aspettare il lieto fine in cui tutti vivranno felici e contenti? Per vedere fin dove può arrivare la miseria umana, anche detta La Sfiga? Per confrontare lo show con la nostra vita e realizzare che tutto sommato ce la passiamo piuttosto bene? Perché siamo perversi e un po' sadomaso? L'ultima sembra la più probabile.

Mi consolo pensando che non sono da sola, è una perversione di massa.

La riflessione della solita telespettatrice in astinenza da sitcom. Parte 3


"Una risata può essere molto potente. A volte è l'unica arma che abbiamo". Roger Rabbit
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Qualcuno potrebbe obiettare che di questi tempi c'è poco da ridere: il riscaldamento globale, il terrorismo, l'incertezza economica, la guerra in Iraq, in Palestina e in troppi altri paesi del mondo...
Ma in passato, forse per spirito di sopravvivenza, l'arte della risata ha resistito a prove altrettanto difficili
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superando brillantemente crisi economiche ed energetiche. Anzi, proprio i momenti storici più drammatici hanno visto la nascita di nuovi tipi di commedie che riuscivano, con l'evasione o la satira, a rendere più sopportabile la realtà.


Negli anni '70, tra guerra fredda, Vietnam, crisi petrolifera, conflitti sociali, la commedia ha reagito all'assalto della realtà... aprendole le porte: nei salotti delle sitcom sono entrate le questioni politiche e sociali, i conflitti di classe e quelli razziali, e tutti gli argomenti controversi del momento. Aborto, razzismo, inflazione, sessismo, criminalità, politiche sociali, violenza carnale erano moventi del plot e motivo di risate nella sitcom Arcibaldo, in cui il burbero e cocciuto protagonista, un uomo all'antica, si scontrava quotidianamente con la figlia e il fidanzato di idee liberali.

In Mash, i medici di un anarchico e strampalato ospedale da campo organizzavano scherzi, tornei e goliardate degne di Animal House mentre affrontano l'orrore della guerra di Corea: nasceva così la dramedy, drama e comedy insieme, per mostrare con un punto di vista innovativo l'assurdità della guerra e, al tempo stesso, la bellezza della vita.

Erano due show che riuscivano a unire comicità e politica.
Non avevano paura di far pensare. Ne di far ridere. La comicità è un antidoto potente contro le situazioni più difficili, sia che scelga la via più facile dell'evasione, sia che opti per quella più impegnata della satira.
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E ora? L'unico antidoto di cui disponiamo sembra essere l'eroe (medici & poliziotti) o il supereroe (Heroes & Co.).
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Leopardi scrisse: "Chi ha il coraggio di ridere è il padrone del mondo. Come chi ha il coraggio di morire".
Ultimamente sembriamo privilegiare la seconda opzione.
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Vuoi vedere che, non solo viviamo in tempi difficili, ma abbiamo anche perso il senso dell'umorismo? Questa sarebbe davvero una tragedia!

L'invocazione della telespettatrice in astinenza da sitcom. Parte 2

Un giorno senza un sorriso è un giorno perso”. Charlie Chaplin

Ridatemi qualcosa che faccia ridere, ridatemi le commedie.

Ridatemi i salotti, così familiari, delle sitcom in cui personaggi riescono sempre a fare la cosa sbagliata al momento sbagliato, mentendo in modo compulsivo per rimediare al loro errore, e poi continuando a mentire per coprire la bugia precedente, in un esilarante crescendo di assurdità che ci fa ridere e vergognare per loro allo stesso tempo (e dimenticare quelle insopportabili risate registrate).


Ridatemi J.D. di Scrubs, un medico che ha anche una vita privata, un mondo immaginario, un padre e un fratello che lo vanno a trovare e conosce tutti i telefilm degli anni '70.


Ridatemi Sex and the city in cui, sebbene tutte e quattro le protagoniste abbiano un impiego, la parte più interessante della loro vita si svolge altrove, a casa, al ristorante, in strada, tra le lenzuola, e non dobbiamo, se non occasionalmente, sorbirci i loro problemi sul lavoro.


Ridatemi i Jefferson e il loro sarcasmo, per trattare in modo diverso razzismo, pregiudizi e conflitti di classe.


Ridatemi gli Innamorati pazzi Paul & Jaime e Dharma & Greg, e i loro adorabili folli suoceri: tutte coppie litigiose e stranamente assortite ma irrimediabilmente felici.


Ridatemi Arrested Development, forse la migliore sitcom mai scritta, sicuramente la peggiore famiglia televisiva mai vista, per ridere di conflitti edipici e guai giudiziari, di dipendenza da psicofarmaci e dell'embargo in Iraq e rivalutare tra le risate i propri familiari.


Ridatemi Seinfeld che con i suoi amici parla di Pez Dispenser, donne con le mani da uomo, uomini che si mettono le dita nel naso, di quanto la parte superiore dei muffin sia più buona della base, di quanto tempo sia possibile resistere senza masturbarsi... e di quanto sarebbe bella una sitcom che parlasse di argomenti così superflui.

To be continued...

Non c'è niente da ridere. L'invettiva di una telespettatrice in astinenza da sitcom. Parte 1

Nessuno è mai morto dal ridere”. Max Beerbohm

Sono stufa di guardare ragazzi trapassati da parte a parte da alberi o pali della luce, medici che dicono con aria grave “abbiamo fatto il possibile per suo figlio, ma non c'è stato niente da fare”, interminabili piani sequenza su genitori che si struggono dal dolore.


Sono stufa di sorbirmi delitti sempre più morbosi e splatter, poliziotti sempre più noiosi e monolitici, con le loro squadra ultraspecializzate in cui ognuno ha una competenza specifica ma nessuno ha una personalità propria.


Sono stufa di vedere creature mitologiche mezzi poliziotti mezzi medici, con l'insostenibile pesantezza dell'essere e la mancanza di ironia d'entrambi, sempre intenti a dissezionare cadaveri e raschiare ossa, impassibili davanti a corpi liquefatti e topi che escono dalle budella.


Sono arcistufa di vedere personaggi a una dimensione, medici e poliziotti che vivono solo per il lavoro, si accoppiano solo con i colleghi, parlano solo di lavoro e dei colleghi con cui si accoppiano (perché evidentemente non sono mai stati al cinema, a ballare con gli amici, in vacanza), sono egocentrici e stressati come se ogni giorno spettasse a loro salvare il mondo, e soprattutto si prendono sempre così maledettamente sul serio.

C'è troppa serietà in TV ultimamente. La serietà è sopravvalutata.

To be continued...

Risposte ai problemi della vita, # 21

"I can't decide which is riskier: taking crazy risks, or taking advice on crazy risks from a crazy risk taker".

Gregory House, House

"I see dead people" ovvero Amore o Tumore II - la Vendetta


Amore o tumore? This is the question.
Again.

L'amletico interrogativo che aveva già allietato due indimenticabili episodi di Grey's anatomy è diventato ora il fulcro dell'intera quinta stagione. Perché non sfruttare al massimo uno spunto così piacevole? devono essersi chiesti gli sceneggiatori.

Amore o tumore, dunque.
E quello che ci chiediamo davanti alle allucinazioni di Izzie: la dottoressa Stevens non solo vede ovunque il suo defunto fidanzato, ma si intrattiene con lui in quotidiane conversazioni e bollenti notti. Un caso di estremo stress post traumatico o qualcosa di più grave? Ha le visioni perché è ancora innamorata di Dennis o perché ha un tumore al cervello?

La risposta dipenderà, suppongo dal rinnovo del contratto dell'attrice. Se Katherine Heigl ottiene l'aumento, è amore. Se riceve un'offerta migliore, è tumore.

In entrambi i casi sarà una lagna. Nel consueto stile Izzie Stevens.


Si affaccia anche una terza possibilità: la Heigl ottiene tutto, l'aumento e uno spinoff tutto suo, da protagonista.
Per lanciarlo, un bel (si fa per dire) crossover con Ghost Whisper. Già me lo immagino: in un lacrimosissimo doppio episodio, l'altrettanto lagnosa Melinda aiutera la nostra beniamina a liberarsi del suo fantasma. Ma solo dopo una gioiosa uscita a quattro con i loro fidanzati morti.
Dopodiché Izzie sarà matura per avviare un'attività paranormale tutta sua... all'interno del Seattle Grace! Quale posto migliore di un ospedale per avvistare fantasmi?

Tutti i pazienti che i suoi colleghi non riusciranno a salvare, passeranno nelle cure post mortem di di Izzie che con la sua sensibilità li aiuterà a trovare la strada per l'aldilà.

Titolo provvisorio dello spinoff: Grace Whisperer.

O è meglio Ghost anatomy?

Vivere e, soprattutto, morire, poco a poco, a Los Angeles


"Specialissimo, imperdibile, eccezziunale crossover Grey's Anatomy/Private Practice!" annunciava il messaggio pubblicitario alla fine dell ultimo episodio di Grey's anatomy. Ora, tanto incredibile non mi sembra visto che il secondo telefilm e' uno spinoff del primo. Non e' che stiamo parlando di Magnum P.I. che incontra la Signora Fletcher (e' successo!) o di Maciste contro Dracula (e' successo?).


Comunque, per l'occasione, ho deciso di infrangere il mio proponimento di molti mesi fa e tornare a vedere per una volta Private Practice. Dopo poci minuti mi sono ricordata del perche' avevo preso quella sana decisione: è un telefilm noioso. E, di fondo, molto squallido.

Deve essere per l'odore acre della sfiga che aleggia su tutti i protagonisti.
Persistente come la cappa di smog sul cielo di Los Angeles.


Non che i loro colleghi del Grace Hospital siano la personificazione della gioia di vivere, anzi... diaciamolo, sono una massa di frustrati: gente sola, senza alcun amico al di fuori dell ospedale, che si relaziona con i familiari solo quando questi finiscono, appunto, in ospedale (e poi, spesso, al cimitero), tutti con una rara collezione di storie sentimentali naufragate e un assortimento incredibile di turbe mentali, accomunati però da un inflessibile stakanovismo calvinista.

Eppure, nonostante tutto questo, sono affezionata ad ognuno di loro. Continuo, mio malgrado, ad appassionarmi alle loro vicende. E' forse qualcosa di morboso e malato che mi attrae, ma si tratta nondimeno di un'attrazione irresistibile, un vizio che crea dipendenza.
Insomma, il telefilm funziona.


Ma con Addison & Co. e' tutta un'altra storia... I protagonisti sono altrattanto sfigati degli allegri chirurghi di Seattle, ma lo sono in modo cosi' poco interessante!
La serie e' forse troppo realistica nel ritrarre la vita di questi quarantenni single, vedovi o divorziati, che lavorano in un banalissimo studio medico con tutti i banalissimi problemi di gestione connessi. Non sembrano avere grandi sogni, ne' molta speranza. La loro vita sembra gia' finita da tempo, prima dell'inizio del telefilm, con il divorzio o la morte del coniuge.
Sono un po' come i vecchietti che vanno ad appassire al caldo della Florida. O come gli immigrati di LA descritti da John Fante : "disperati che vengono a morire al sole".
Ed e' una lenta agonia.

Occhio alla penna! Max Mutchnick & David Kohan

Pubblicato su telefilm magazine n° 50, aprile 2009, rubrica "Occhio alla penna"

"Autori si nasce o si diventa? Max Mutchnick e David Kohan la scrittura sembrano avercela nel sangue: la mamma di Mutchnick è autrice di libri per bambini e produttrice per la Paramount; Kohan è figlio di un premiato sceneggiatore televisivo e di una romanziera, nonché fratello della futura creatrice di Weeds.

Amici d’infanzia conosciutisi sui banchi dell’esclusiva Beverly High, i due iniziano il loro sodalizio artistico nel '91 e da allora scrivono sempre insieme. La loro specialità è la sitcom che amano “perché dopo 2 sole settimane vedi già i frutti del tuo lavoro”. Il loro punto di forza è l’amicizia: Max e David traggono ispirazione e solidità dal loro vissuto comune. “La nostra relazione è come un matrimonio” spiega Mutchnick “nel senso che finiamo l'uno le frasi dell'altro e che non facciamo sesso”.

Il primo progetto personale, Boston Common (1996), è basato sugli anni passati insieme al college. I protagonisti di Will e Grace (1998-2006) sono modellati su Max stesso, gay dichiarato, e sulla sua migliore amica Janet, altra compagna di liceo dei due. Lo spunto autobiografico aiuta a dar vita a eroi che vanno oltre gli stereotipi e il risultato si vede: per la prima volta personaggi omosessuali conquistano il grande pubblico. La serie ottiene ben 73 nomination agli Emmy e ne vince 14.

La loro prossima sitcom parlerà di due affiatati colleghi che lavorano per la TV, uno etero, l'altro gay... vi ricorda qualcuno?

Occhio alla penna! Craig Wright

Pubblicato su Telefilm Magazine n° 49, marzo 2009, rubrica "Occhio alla penna"

Già prolifico e pluripremiato drammaturgo, Craig Wright è diventato uno dei nomi di punta della sceneggiatura televisiva lasciando la sua impronta inconfondibile in Six feet under, Lost, Brothers & sisters e, infine, Dirty sexy money, sua creazione originale.

La formazione di Wright è significativa quanto singolare: a 28 anni, deluso dalla cancellazione all’ultimo minuto di una sua pièce teatrale, cerca qualcosa di meno effimero cui dedicare le sue energie ed entra in seminario. Abbandona pochi anni dopo la vita religiosa, sull’onda del successo ottenuto nel frattempo dai suoi lavori. Ma spiega che pastori e sceneggiatori non hanno poi due vocazioni così differenti: entrambi cercano modi nuovi per porre domande antiche. Wright diffida delle religioni e dell’arte che offrono risposte.

I suoi script ruotano sempre attorno a quesiti etici ed esistenziali ed evitano ogni semplificazione e stereotipo. I suoi interrogativi risultano appassionanti e coinvolgenti: sono parte integrante delle vicende dei personaggi e risuonano nella vita degli spettatori.

La famiglia Fisher, Brenda, l’avvocato a un bivio, i naufraghi dell’isola misteriosa, i Walker e a modo loro anche i Darling: tutte le creature di Wright sono, in fondo, “lost”, alla ricerca di se stesse. Si chiedono cosa vogliono veramente e cosa sono disposte a perdere per raggiungerlo. Di episodio in episodio, tentano di dare una risposta alla grande domanda: quale è il significato della vita?


Risposte ai problemi della vita, # 20

"Se tutti decidessimo di trasferirci nelle nostre località di vacanza preferite, il mondo intero abiterebbe alle Hawaii, in Italia o a Cleveland"

Floyd, detto Floydster,
30 Rock

Poliziotti su marte. Riflessioni di una telespettatrice nostalgica


Guardare Life on Mars è un po' come rivedere Starsky & Hutch. E non solo per le auto color ruggine e i colletti a punta.
LOM Riporta alla mente ricordi sbiaditi (o arrugginiti ha-ha) di telefilm in cui i poliziotti indagavano, pedinavano, inseguivano, interrogavano e alla fine acciuffavano il colpevole grazie al loro intuito.
Telefilm in cui i poliziotti non erano scienziati, patologi, psichiatri, ematologi, geni matematici, medium o serial killer (!) ma soltanto, appunto, poliziotti. Una condizione un tempo sufficiente a garantire, da sola, la soluzione del caso e l'ammirazione degli spettatori.
Poi sono arrivati Horatio Caine, Jason Gideon, Charles Eppes, Allison DuBois...

Ma grazie a Life on Mars, sappiamo che è ancora possibile per un cop show uscire dalla logica dell'iperspecializzazione o da quella del freak show...
... a patto di viaggiare indietro nel tempo di 30 anni!
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Eh sì, niente si abbina al fiuto poliziesco meglio dei pantaloni a zampa.
Il misterioso viaggio temporale dell'ispettore Tyler è l'escamotage per riproporre, oggi, in modo credibile, un tipo di poliziotto anacronistico. Uno che sa fare a meno di analisi del DNA, database onniscenti, telecamere a circuito chiuso e sofisticati corsi di specializzazione. Diamine, Sam Tyler e Gene Hunt non possono contare neanche sul computer!
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Finora solo Walker Texas Ranger aveva osato tanto.
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(... ma senza bisogno di viaggiare nel tempo. Perché Chuck Norris può fermare il tempo. O meglio, come tutti sanno: è il tempo che, quando vede Chuck Norris, preferisce fermarsi)

Erano tutti happy days... Luk è alla radio con i telefilm della nostra infanzia


Tutti quelli che sono cresciuti davanti ai telefilm...
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Quelli che hanno imparato il codice della strada con i CHIPS,
e hanno ricevuto la loro educazione sessuale da 3 cuori in affitto
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Quelli che imitavano la camminata di George Jefferson
i gesti cool di Fonzie
il saluto di Mork
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Quelli che sognando Hazzard hanno provato a entrare nell'auto dei genitori passando dal finestrino
e ogni tanto provano ancora a cambiare la realtà incrociando le braccia e sbattendo le palpebre come Jeannie
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... tutti quelli, insomma, che quando nessuno li guarda corrono ad abbracciare il televisore come Homer
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ora possono risvegliare gli happy days della loro infanzia teledipendente ascoltando riflessioni e ricordi della sottoscritta in un programma dedicato ai telefilm più memorabili degli anni '70 e '80: è "Va ora in onda", ogni giovedì mattina sulla Radio Svizzera.
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La voce flautata che interloquisce con me è quella di Elisa Manca, telefila doc, che non ringrazierò mai abbastanza per la sua bella iniziativa e per aver pensato a me.

Ecco il link per il podcast:
http://www.rsi.ch/podcast/

Buon ascolto!
E nano nano a tutti ;-)

Risposte ai problemi della vita, # 19

"E' strano vedere una tua creatura che si aggira per il mondo. Una versione mutante di te stesso, senza controllo e pronta a distruggere tutto quello che incontra. Mi chiedo se è così che si sente un genitore".

Dexter Morgan, Dexter

Girl Power. Sfida immaginaria tra Lena Headley e Tina Fey



Pubblicato su Telefilm Magazine n° 48, febbraio 2009


Sono due tipe toste, tenaci.
Si sono cimentate in settori tradizionalmente riservati agli uomini, e ne sono uscite vincitrici.
Sono due bellissime donne, ma quando sono in azione non è la prima cosa che si nota di loro.
Una è tatuata come uno scaricatore di porto tailandese, l'altra, per esigenze di copione, è nascosta dentro orribili golf sformati.
Sono Lena Headley e Tina Fey, le due attrici più originali del momento.

Una tira di boxe, cavalca e scocca frecce con l’arco come un’amazzone; ha fatto di esplosioni, inseguimenti, lanciarazzi e scazzottate il suo pane quotidiano.
L’altra ha raccolto sfide altrettanto dure, riuscendo dove grandi uomini hanno fallito: strappare ai telespettatori mezz’ora di risate ogni settimana.

Lena si è imposta all'attenzione del pubblico interpretando la regina Gorgo in 300, unica, magnetica presenza femminile in un film tutto al testosterone.

Tina ha imparato l'arte della risata dai più grandi comici americani ed è diventata la prima, e tuttora l'unica, head writer donna del Saturday Night Live.
Ora sono le protagoniste di due telefilm seguitissimi.


Lena Headley è Sarah Connor nello show TV tratto dalla saga di Terminator: un personaggio di grande forza e carattere, un mito degli anni '80, uno dei primi esemplari di eroine femminili di film d'azione. Una donna dal carattere di ferro e dai muscoli d'acciaio. Perfettamente a suo agio con un mitra sotto il braccio. Una madre coraggio pronta a tutto per salvare il figlio da cui dipendono le sorti del mondo. L'attrice inglese lo interpreta con talento, passione e la grinta che si addice a un'eroina così speciale. Ma soprattutto con il coraggio di chi osa affrontare nemici più temibili degli endoscheletri... loro sono spietati, non si fermano davanti a nulla: sono i fan della saga cinematografica e sono pronti a uccidere chiunque “profani” il personaggio reso grande da Linda Hamilton.


Tina Fey è Liz Lemon, antieroina di 30 rock, lo show da lei stessa creato. Liz è un personaggio autobiografico, la geniale e nevrotica head writer di un comedy show televisivo. Ogni giorno deve affrontare un capo imprevedibile e un team di scrittori infantili e strafottenti. Un ambiente in cui l’umorismo è tagliente e non risparmia nessuno: “Per far ridere il pubblico, vesti un uomo da vecchietta e lo fai cadere giù dalle scale; per far ridere un commediografo, fai cadere una vera vecchietta giù dalle scale”. Anche lei è l'unica donna in mezzo a tanti uomini, ma Tina-Liz ha qualcosa che la avvicina ai suoi colleghi maschi, qualcosa che trascende il genere: è una nerd come loro. Un tipo cervellotico e fuori moda. E con un senso dell'umorismo micidiale. Questa è la sua unica arma. Magari non basterebbe contro un Terminator, ma può essere molto potente... chiedetelo a Sarah Palin, ex candidata alla vicepresidenza americana, l'ultimo bersaglio delle sue esilaranti imitazioni. Tina è anche un'autrice e questo le dà sicuramente un vantaggio: si scrive da sola le sceneggiature e non deve faticare ad afferrare tutti quegli assurdi paradossi temporali che tormentano la Headley!


Insomma, stiamo parlando di due attrici fuori dal comune, due dive che non hanno paura di andare controcorrente rispetto ai canoni hollywoodiani per dare prova delle loro capacità e del loro speciale talento. Perché Lena e Tina sono in missione per conto di Dio. Lena nei panni di Sarah Connor ha un compito ambizioso davanti a sé: salvare il mondo dai Terminator. Tina alias Liz Lemon la sua missione impossibile l'ha già compiuta: ha salvato la sitcom. Per questo sarà sempre la mia eroina.

Risposte ai problemi della vita, # 18

"Non bevo nei giorni di festa. E' da dilettanti!"

Karen Walker, Will & Grace

Occhio alla penna! Tom Kapinos

Pubblicato su telefilm Magazine n° 48, febbraio 2009, rubrica "Occhio alla penna".

Nel 2007 un nuovo nome si è aggiunto all’olimpo dei creatori di telefilm: è Tom Kapinos, il giovane autore di Californication.

La sua serie parte da uno spunto autobiografico e nasce dal bisogno di raccontare il suo rapporto di amore e odio con Hollywood. Il modo migliore per conoscere Tom Kapinos è, allora, attraverso il suo alter ego Hank Moody, lo scrittore protagonista di Californication. Un personaggio creato a sua immagine e somiglianza, identico a lui in tutto… a parte la vita sessuale: quella, ammette Tom, è solo una proiezione delle sue fantasie più selvagge.

Hank è un romanziere di talento che lascia la Grande Mela per seguire il richiamo di Hollywood. Quando il suo libro diventa un insulso, zuccheroso ma popolarissimo film, Hank ottiene il successo che sognava, ma per il motivo sbagliato. Precipita quindi in una spirale d’insoddisfazione e cinismo. Una situazione che rispecchia il vissuto di Kapinos: anche a lui la città degli angeli ha stravolto la vita. Arrivato da New York con grandi ambizioni, entra poco dopo nel team di Dawson Creek. Un debutto folgorante, ma lo show è agli antipodi della sua sensibilità e Tom si adegua con una certa sofferenza. Di qui l’ambiguo rapporto con LA, ben illustrato attraverso il suo doppio. L’odio viscerale per una città falsa e superficiale coesiste con il fascino del mito tutto americano dell’andare a ovest per cercare fortuna. Tom ed Hank l’hanno trovata. Ed è la loro condanna. Come Hank, Tom non sa resistere al canto delle sirene di Hollywood. Accetta soldi e fama, ma finisce per odiare se stesso. La situazione di stallo in cui si dibatte Hank nel telefilm riecheggia allora la crisi creativa attraversata dallo sceneggiatore dopo Dawson.

Finché, per esorcizzare i suoi demoni, Tom inizia a comporre uno script su un romanziere col blocco creativo. Sta infrangendo una vecchia regola: mai scrivere di scrittori, meno che mai di scrittori in crisi. Ma a Tom non importa. E’ solo un esercizio per riprendere il ritmo. Già che c’è, si diverte a infrangere altre regole, inserendo, nei primi 2 minuti, una scena di sesso orale in chiesa con una suora. Ci prende gusto e decide che quello script convincerà tutti che lui non è più il tipo alla Dawson Creek. Vuole dare una svolta alla sua carriera e Californication è il suo biglietto da visita. Inaspettatamente, Showtime si dichiara interessata a trarne davvero una serie. Le tribolazioni di Tom Kapinos sono finite. Iniziano quelle di Hank Moody.

“Quando guardi dentro te stesso e scrivi qualcosa di veramente personale” spiega Kapinos “qualcosa che solo tu potevi scrivere, il resto del mondo lo sente”.

Pro Whedon. La parola alla difesa


Pubblicato su Telefilm Magazine n° 47, gennaio 2009, a conclusione del lungo dibattito su meriti e demeriti di Joss Whedon promosso dai lettori della rivista

Signori della Giuria, sono state dette molte cose contro mio cliente, tirando in ballo la scarsa riuscita del suo primo film e gli ascolti non sempre alti delle sue serie.

Ma un autore non si giudica dalla sua opera peggiore, altrimenti Steaven Spielberg sarebbe solo il mediocre regista di AI. Un autore non si giudica neanche dal calcolo matematico di successi e insuccessi, altrimenti Orson Welles sarebbe semplicemente un fallito.
Un autore, Signori, vale quanto quello che ha lasciato nell'immaginario collettivo. Per questo, Spielberg sarà sempre ricordato come il geniale papà di ET e Indiana Jones, Welles come l'inventore di Citizen Kane e il nostro Joss Whedon come il creatore del Buffyverse.


Whedon ha saputo costruire un mondo ricco di personaggi sfaccettati e in continua evoluzione, legati da relazioni profonde e mutevoli, in cui i confini tra bene e male non sono invalicabili. Un mondo complesso e coerente, capace di vivere anche senza la sua eroina e di migrare in altri media.
Ha creato una protagonista femminile forte, allontanandosi dagli stereotipi sessisti ancora diffusi in cinema e TV, soprattutto nell'horror.
Buffy e il suo mondo hanno conquistato milioni di fan e, come Harry Potter, non saranno dimenticati ora che si è conclusa la loro saga.

Anche perché lasciano un'importante eredità: il rinnovamento dei generi horror e teendrama. Come e più di Kevin Williamson con Scream e Dawson creek, Whedon ha creato l'horror postmoderno e il teendrama postmoderno, uniti in un unico telefilm.

Per questo, Signori della giuria, chiedo di prosciogliere il Signor Whedon da ogni accusa.

Occhio alla penna! Alan Ball


Pubblicato su Telefilm Magazine n° 47, gennaio 2009, rubrica "Occhio alla penna"

Dalla sitcom all’Oscar, dal dramma familiare all'horror, la carriera di Alan Ball è eclettica e imprevedibile. Le sue scelte, come le sue storie, rispecchiano “la complessità della vita” che Ball si ostina a rappresentare all’interno di “un’industria culturale che tende alla semplificazione”.

Laureato in teatro, Ball sogna Broadway ma finisce a Hollywood. Un producer, colpito dai suoi lavori per la scena off di NY, gli propone di scrivere per la TV. E' così che Alan diventa sceneggiatore di sitcom. Scrive per Grace under fire (1994-95) e Cybill (1996–98). Crea Oh, grow up (1999), ispirata ai suoi trascorsi da commediografo squattrinato in uno sgangherato appartamento condiviso di Brooklyn; la sitcom però ha bassi ascolti ed è cancellata a metà stagione.

Quattro anni e molti episodi dopo, Alan è uno scrittore frustrato dalla routine, dai limiti del format, dalla mancanza di controllo sui suoi testi. Si sente “un operaio della sceneggiatura” e ha bisogno di nuovi stimoli.

Punta al cinema e ritrova la passione: scrive ogni notte, dopo il lavoro da “operaio”, una storia in cui sfoga attraverso il protagonista tutta la sua frustrazione. E' American beauty (1999) che diventa un film di successo e lo ripaga con un Oscar per la sceneggiatura.

Grazie a HBO e alla sua tradizione di qualità, Alan si riconcilia con la TV. Scrive, produce e spesso dirige Six feet under (2001-05), dramma corale sulle vicende di una famiglia proprietaria di un'impresa di pompe funebri. Lo show va avanti per 5 stagioni, vince 6 Emmy e 2 Golden Globe, lanciando gli attori protagonisti e la carriera di regista di Ball, più volte premiato per la sua direzione. Infine nel 2008 crea l'accattivante True blood, serial sexy e sanguinoso tratto da una serie di romanzi sui vampiri.

Al centro dei due macabri telefilm, seppur esplorato da angolazioni diversissime, è il rapporto dei personaggi con la morte. L’ossessione dell’autore ha radici profonde: da bambino Alan ha visto morire la sorella in un incidente d'auto. Da allora, spiega, la morte è una presenza costante nella sua vita, lo accompagna in ogni stanza. E in ogni sua creazione.

Il suo approccio alla scrittura è istintivo. Dotato di un innato senso della struttura, Ball lascia che la trama si sveli a lui poco a poco, accogliendo via via le intuizioni che sente più efficaci. Non delinea a priori l'outline della stagione o le modifiche ai romanzi. Sarebbe un limite al “viaggio di scoperta” che è imprevedibile ed è “l’aspetto più emozionante del processo di scrittura”. Lo svelarsi della storia è un'esperienza quasi mistica.

Occhio alla penna! Tina Fey


Pubblicato su Telefilm Magazine n° 46, dicembre 2008, rubrica "Occhio alla penna"

Scrive, recita, produce. Dalla sua fantasia sono nati sketch, film, telefilm. Tutti all'insegna della risata. E' una delle poche donne a cimentarsi in un terreno di gioco prevalentemente maschile: la comicità. Parliamo di Tina Fey, trentottenne regina della commedia televisiva made in USA e trionfatrice degli ultimi Emmy e Golden Globe.

Tina ha ben chiaro fin da adolescente qual'è il suo talento: lo humour. Così, studia recitazione e si trasferisce a Chicago determinata a lavorare in Second City, vera istituzione della comicità americana; lì hanno iniziato i più grandi, da John Belushi a Bill Murray a Steve Carell. Missione compiuta: dopo un anno di apprendistato intensivo, la giovane Tina entra a far parte dello show e vi recita dal '94 al '97. Alla scuola di Second City impara l'improvvisazione ovvero l'arte di coniugare attore e autore nella medesima persona. Scopre così di avere una marcia in più: la scrittura.

Debutta nel cinema scrivendo la sceneggiatura di Mean girls (2004), la commedia che fa di Lindsay Loahn una star.

Come per molti suoi celebri predecessori, lo show di Chicago si rivela un trampolino di lancio per il più popolare Saturday Night Life. Tina vi entra in veste di sceneggiatrice. Dopo due anni diventa head writer nonché parte del cast. E' la prima donna a ricoprire questo ruolo e grazie a lei il programma rinasce dopo un lungo periodo di decadenza.

Nel 2005 diventa mamma ma dopo appena un mese torna a lavorare ai suoi sketch perché ha “un contratto da rispettare con la NBC mentre con la bambina c'è solo un accordo verbale”. E poi commedia e maternità si somigliano: “entrambe prevedono un travaglio doloroso per arrivare a un sollievo finale”.

L'anno dopo crea per la stessa rete 30 Rock (2006-08), una sitcom basata proprio sulle sue precedenti esperienze televisive. La protagonista, interpretata dalla stessa Tina, è l'head writer di un TV show della NBC, alle prese con un boss invadente (Alec Baldwin), un cast capriccioso e uno strambo team di scrittori. 30 Rock è accolta con entusiasmo dalla critica, colleziona premi, ma non ottiene mai grandi risultati di ascolto. Nel ritirare l'ennesimo Emmy, l'autrice ringrazia ironicamente “le dozzine e dozzine di fan dello show”. Che resiste tuttora in onda alla sua 3° stagione.

Il grande pubblico arriva per Tina durante gli ultimi mesi della campagna presidenziale del 2008: tornata per l'occasione a collaborare con i vecchi amici del SNL, allieta mezza America con le sue esilaranti imitazioni della repubblicana Sarah Palin.

Risposte ai problemi della vita, # 17

"Le persone odiano le persone che hanno teorie sulle persone".

Gregory House, House